domenica, febbraio 11, 2007

Lo linciamo 'sto Lynch!?!



Una domanda del genere otterrebbe, credo, il 99% delle risposte affermative nel caso
in cui venisse posta al 170esimo minuto di INLAND EMPIRE il quale, fin dal titolo, deciso da Lych perché gli piacevano le parole "INLAND EMPIRE" (un sobborgo ad est di Los Angeles dove abita il marito di Luara Dern - fondamentale saperlo per noi - e subirne un film intero), si rivela fondamentalmente una presa per i fondelli del pubblico. Senza esagerare si tratta veramente di un'accozzaglia insensata, pretenziosa, vacua ed inconcludente di scene dai tipici tratti "lynchani". Buone per 20 secondi di video arte o per un videoclip di Tiziano Ferro, ma assolutamente vessatorie per i 172 minuti (197 per i poveri polacchi, abituati alle purghe staliniane, alla chiesa e a Solidarnosc) totalmente privi di continuità narrativa. Insomma le scene misteriose-grottesche-spiazzanti che hanno reso famoso il maestro funzionano se inserite in un contesto con un minimo di senso, ma in questo caso, per quanto sia da riconoscere una certa maestria, risultano quantomeno gratuite oltre che noiosissime. Intervistato a caldo all'uscita dalla proiezione uno spettatore che per ragioni di privacy chiameremo Jino risponde: "adesso vado a casa sua e gli mostro per 347 minuti il mio culo perchè a me piacciono le parole "BUCO DEL CULO" (il maiuscolo è d'obbligo, pare)."

2 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Propongo una recenzione alternativa e un pò più articolata del film di Lynch:

http://www.spietati.it/speciali/chi-ha-ucciso-laura-dern/chi_ha_ucciso_laura_dern.htm


CHI HA UCCISO LAURA DERN?

From INLAND to Blackout: imperi di luce e oscurità



di
Alessandro Baratti
con contributo di
Luca Pacilio




INLAND SOUL

Impossibile non tornare su INLAND EMPIRE – film letteralmente monumentale – per almeno un paio (in realtà un miliardo) di motivi. In primo luogo per correggere alcune inesattezze del commento Ghost of Love, di cui una francamente imbarazzante, e in secondo luogo per inquadrare la vicenda messa in scena con un taglio più deciso e frontale. Straordinariamente polisemico e suscettibile di molteplici (inesauribili?) interpretazioni, INLAND EMPIRE possiede tuttavia un’unità compositiva e un’organicità strutturale che rischiano di passare inosservate se il film è descritto come una semplice giustapposizione di sequenze assurde e paradossali – per quanto magistralmente congegnate e girate. Secondo chi scrive considerare IE un film esclusivamente illogico, surreale, delirante significa fargli un torto enorme, significa non riconoscere la sua anima, che è un’anima radiosa, cristallina, fonte di generosità e luminosità. Inversamente, interpretare l’ultimo film di David Lynch secondo una chiave rigorosamente psicologica – come una sindrome dissociativa originante un ritorno del rimosso sotto forma allucinatoria – significa ingabbiarlo in uno schema tanto raziocinante quanto intransigente, finendo per soffocarne le risonanze spirituali, fortissime in IE. Sia l’interpretazione “surreale” che quella “psicologizzante” si rivelano coperte troppo corte, insomma, fallendo il bersaglio della comprensione (il più possibile) integrale dell’opera. Proponiamo invece una terza via ermeneutica tesa ad armonizzare le due prospettive in una visione basata su procedimenti analogici e sul superamento del principio di non contraddizione: tertium datur.

Can you see the light?

Come noto, Lynch pratica la meditazione trascendentale da più di trent’anni (“All’inizio ti pare una perdita di tempo, poi scopri che è come un ascensore in caduta libera. Una benedizione che ti esplode in testa. La vita si mette a pulsare in modo diverso. Integra intelletto con emozione, quando questi si uniscono ci permettono di comprendere ciò che prima ci pareva incomprensibile”): ebbene, INLAND EMPIRE è integralmente permeato di suggestioni trascendentali, al punto da essere strutturato come un percorso di illuminazione liberatoria. Quello esperito da Laura Dern (Nikki/Sue) è difatti un viaggio verso la luce che passa attraverso un tuffo nell’oscurità, un faccia a faccia con le paure più profonde e imprigionanti culminante in una raggiante liberazione. Se questo orientamento non viene tenuto saldo per l’intera durata del film, la materia narrativa resta quasi inerte, riducendosi ad un coacervo di frammenti sconnessi – anche se meravigliosamente realizzati – con una pesantissima ricaduta emotiva: le singole sequenze riescono sì a generare emozione, ma un’emozione primitiva, elementare, involuta. Monca. Affinché la materia “trascenda” è necessaria l’integrazione con la dimensione intellettuale: intelletto ed emozione in unità, in armonia. Unificata, la mente assapora i frutti, comprende, vede. Questo è ciò che ci dice Lynch dalla prima all’ultima inquadratura di INLAND EMPIRE. Un messaggio? Una lezione? Un insegnamento? Assolutamente no. Una concezione dell’esistenza, piuttosto, una visione mentale direttamente riversata in immagini filmiche. O meglio: una visione concepita in immagini digitali (“With DV everything is lighter; you're more mobile. It's far more fluid. You can think on your feet and catch things”). Puro linguaggio visivo, immagini pensanti, “senzienti”. Immagini liberatorie. Perché – fare attenzione – non tutte le immagini sono dotate di questo potere, alcune imprigionano, generano e perpetuano segregazione, come quelle televisive: la Lost Girl è schiava della televisione, specchio generatore di fobie, strumento di ipnosi, correlativo oggettivo del Fantasma. È il Fantasma che attraverso il televisore la tiene in trappola, paralizzandola in una condizione di angoscia catodica senza fine, 24 hours a day.

Tv Dog

La sequenza iniziale, nella quale l’identità dei personaggi è resa ambigua da un alone che ne offusca i volti, rivela che è proprio la paura a costituire il blocco principale: una donna polacca spaesata (“Le scale sono buie… Non riconosco questo posto… Non trovo la chiave”) è alla mercè di un uomo padrone della situazione (“È la nostra camera… Ho io le chiavi, le hai date a me…”), che la guida e la sottomette (“Lo sai cosa fanno le puttane? Togliti i vestiti…”). La forte atmosfera sadomaso che impregna la circostanza (“Mi vuoi scopare?”, “Ti dico io cosa voglio! Spogliati!”) non può non far pensare a una sodomizzazione, tanto più che, prestando attenzione, è possibile notare che l’uomo tiene bloccata la ragazza con le braccia dietro la schiena. La frase conclusiva della donna soggiogata – che indoviniamo indossare una mascherina bianca, accessorio tutt’altro che casuale come vedremo in seguito – è paradigmatica: “Ho paura. Ho paura”. Adesso è definitivamente prigioniera. Chi è questa donna? Non necessariamente e non soltanto la Lost Girl (anche se tutto ce lo fa pensare), più ampiamente è qualunque donna si lasci sottomettere (le prostitute amiche di Sue e della Lost Girl…). Chi è l’uomo? Non soltanto il Fantasma, ma qualunque individuo esercitante il controllo attraverso il terrore e la prevaricazione (Piotrek, Devon/Billy). Sgomenta, la Lost Girl è imprigionata nella stanza 47, il televisore a fare da cane da guardia. Particolare sconvolgente: nel finale, durante lo scontro col Fantasma nel corridoio, al posto della piccola finestra sopra la porta si trova un abnorme televisore con videoregistratore incorporato. Un mostruoso compatto nero che sovrasta la soglia, custode gigantesco e agghiacciante che sorveglia l’ingresso incutendo un timore indicibile. Si tratta di un oggetto strano e dislocante: scorgerlo fa letteralmente gelare il sangue. È soltanto all’esterno, una volta all’interno della stanza questo mastino tecnologico scompare, volatilizzato insieme al Fantasma. Ghost Dog.

Ghost of Fear+Ego

È qui che occorre correggere il macroscopico travisamento presente nel commento Ghost of Love. Confuso dal fatto che all’esplosione luminosa provocata dai proiettili il Fantasma non dà segni di dolore o sofferenza, ho pensato fosse stato “reclutato” in qualche modo dalle forze benigne (per la precisione dagli anziani polacchi seduti attorno al tavolo). In realtà, si tratta di una compiuta e stratificata rappresentazione del Male: l’ego e la paura uno sopra l’altra. Laura Dern spara quattro volte al Fantasma: i primi tre proiettili producono un bagliore crescente che lo investe e lo immobilizza, facendo comparire sul suo volto la maschera stravolta di Nikki, mentre il quarto sparo, esploso contro questa immagine agghiacciante (tra le più spaventose mai viste), dissolve la maschera e fa comparire un viso bianco e gommoso con le orbite nere e la bocca sanguinante. Immerso in un liquido trasparente, questo viso da fantoccio rappresenta la Paura intesa come blocco sommerso, grumo inconscio, ostacolo all’unità della mente. Superata anche quest’ultima prova, Nikki può entrare nella stanza 47 e raggiungere la Lost Girl, liberandola con un abbraccio e un bacio che, lungi dal possedere connotazioni erotiche, comunicano un’ondata travolgente di empatia, unità e felicità. Armonia.

Mise en liberté

Qual è il legame tra questi due personaggi? È indubbio che Nikki “scarceri” la Lost Girl dalla prigionia fantomatico-televisiva passando attraverso lo specchio/schermo (più che una mise en abîme quella del finale è una vera e propria mise en liberté) ed è altrettanto indubbio che la vicenda di On High In Blue Tomorrows riproduca, con le relative interferenze sul piano extrafilmico, quella di Vier Sieben, ciononostante il rapporto tra le due donne è in bilico tra proiezione mentale ed effettiva esistenza su piani distinti di realtà. La Lost Girl “crea” psichicamente Nikki/Sue? Nikki esiste effettivamente in un’altra fascia di realtà? In tutta franchezza credo che entrambe le ipotesi siano plausibili e che uno dei risultati più affascinanti di INLAND EMPIRE risieda proprio nella creazione e nel mantenimento di questo delicatissimo equilibrio generatore di mistero. Attribuire uno statuto autonomo a Nikki permette di apprezzare pienamente il suo percorso di affrancamento dalla tirannia di Piotrek, il marito autoritario e possessivo, dalla falsità di Devon/Billy, l’amante subdolo e approfittatore, e dalla vanità di Kingsley, il regista fatuo e adulatore. Osservata come personaggio a sé stante, Nikki diventa insomma la protagonista di un cammino di ascesi costellato di ostacoli da superare e scandito da una gamma cromatica che attraversa il verde e il rosso per culminare nell’azzurra radiosità di una luce sfavillante. Chiameremo questa traiettoria narrativa “prospettiva nikkocentrica”.

On High In Blue Tomorrows

In questo progresso spirituale sono almeno due i momenti determinanti e si svolgono entrambi nel film On High In Blue Tomorrows. Il primo coincide con l’irruzione di Laura Dern in casa di Billy: schiaffeggiata da Doris (Julia Ormond) e respinta dall’amante, Susan subisce una pesante umiliazione, perdendo letteralmente la faccia. Con l’affermazione “Non m’importa, è qualcosa di più”, Nikki/Sue (la situazione indica chiaramente che il trauma è condiviso da entrambe le dramatis personae) proclama l’irrilevanza dell’ego, la superfluità della maschera, sbarazzandosi del primo strato di condizionamenti. La dissoluzione delle Paure (il senso di colpa generato dal tradimento, il timore di fare la fine delle prostitute, delle homeless e in ultima istanza di Niko) avviene vivendole simbolicamente sul set di OHIBT. Sulla strada, Sue urla sguaiatamente: “Dove sono? Sono una puttana. Ho paura”, suscitando le risate scomposte delle amiche prostitute (e ripetendo alla lettera le parole pronunciate dalla donna polacca nella sequenza iniziale). Il cacciavite che Doris le affonda nel ventre rappresenta il contrappasso della penetrazione e la soppressione dislocata del “figlio della colpa”. Il suo decesso, infine, reso ancora più raccapricciante dall’indifferenza delle due homeless e dalla storia di Niko, oggettiva il terrore definitivo, quello di morire sola e derelitta. Vomitando sangue – evento che prefigura la bocca sanguinante del fantoccio biancastro – Sue espelle il grumo di paure che ostruiscono ancora la sua mente, raggiungendo un condizione di armonia superiore.

Bodhisattva

La morte di Sue è una rinascita. Nikki si mostra indifferente agli applausi della troupe e alle congratulazioni del regista, segno che ormai è insensibile alle lusinghe dell’ego, uscendo dallo STAGE 4 come un essere nuovo (“Un bambino un giorno andò fuori a giocare. Quando aprì la porta egli vide il mondo”), pronto a proseguire il cammino di crescita. Gli STAGE 5 e 6 sono davanti a lei, tappe naturali di un progresso individuale, eppure l’uscita dal teatro di posa le provoca un “riflesso” (“Nell’uscire dalla porta, egli causò un riflesso. Il male era nato e seguiva il bambino”): Nikki vede la Lost Girl e sceglie di andare in suo aiuto per sconfiggere il male che la tiene incatenata (una scelta che evoca con forza la figura del bodhisattva, “essere vivente che ha intrapreso il cammino per l'illuminazione ma sceglie di dedicarsi ad aiutare tutti gli altri esseri senzienti a raggiungere l'illuminazione”). Ora, prodigioso sottotesto, si rammenta dell’altra versione della storia raccontatale dalla vicina, quella in cui si parla di una fanciullina persa nella piazza del mercato come una creatura incompiuta: “Cioè non era la piazza del mercato, lei lo sa questo, vero? Era il vicolo appena dietro la piazza del mercato. Quella è la via che conduce al Palazzo”. Grazie all’unità dolorosamente conquistata, Nikki adesso ricorda, davanti a lei si materializza una soglia: un arco bianco che la immette nella sala cinematografica dove alcune immagini del film appena concluso (in una situazione simile alla visione dei giornalieri) le suggeriscono cosa fare: seguire l’uomo con gli occhiali (Mr. K) fino alla stanza Axxon n. e lì inoltrarsi nei meandri di uno spazio fusionale che la condurrà prima alla pistola riposta nel cassetto e poi al Fantasma. Lo scontro finale - stare attenti - non è col suo Fantasma, già esorcizzato sul set di On High In Blue Tomorrows, ma con quello della Lost Girl, con il blocco telefobico che la tiene prigioniera. A questo punto Nikki è in missione per conto della Lost Girl, lavora per lei.

La prospettiva “lostgirlcentrica”

Accanto (con? contro? dentro? fuori?) alla prospettiva nikkocentrica carica, come abbiamo visto, di suggestioni simboliche e culminante in una liberazione dal sapore fortemente catartico/trascendentale, esiste – anzi è quella che va decisamente per la maggiore – una lettura del film che assume invece il punto di vista della Lost Girl e che vede in Nikki/Sue un prodotto immaginario della ragazza polacca che guarda la televisione. Pura “trasfigurazione sognata/idealizzata”, secondo questa chiave di lettura Nikki non sarebbe altro che la proiezione allucinatoria, irrigata dalle immagini televisive, dell’intima vicenda della Lost Girl chiusa nella stanza di un vecchio hotel. A proposito di questa interpretazione (ed è bene ribadire fino alla nausea che per un film come IE ogni tentativo di sistemazione della materia narrativa è un’avventura ermeneutica e non una semplice operazione di ricomposizione della linearità), ho ricevuto una mail di Luca Pacilio che illustra esemplarmente la prospettiva “lostgirlcentrica”, sviluppando inoltre una riflessione di straordinaria finezza estetico-linguistica sulla “televisività” strisciante di IE. Mette conto riportarla integralmente, il tono confidenziale e, per così dire, soffice dell’argomentazione è autentico valore aggiunto.

Format e sostanza

“Ale, rimettendo a posto i vari appunti raccolti ricavo questo schemino semplice, poco particolareggiato e pieno di buchi: ci andrebbe una visione in dvd, reiterata e con telecomando alla mano, almeno di alcuni passaggi che meritano approfondimento e attenzioni particolari (i dialoghi, tanto per dire, sono fondamentali): la situazione è molto, molto più complicata di MD che operava un semplice (?) rovesciamento di prospettive. Qui no, qui i livelli sono tanti. Ho assunto subito (e ho mantenuto fermo anche in seguito - perché avevo paura di mollarla quest’unica certezza, a quel punto non avrei saputo che pesci prendere -) come porta d’ingresso del film la Lost Girl, la ragazza polacca che guarda la televisione. Di lì, in soldoni e (fin troppo schematicamente) Nikki/Sue come sua trasfigurazione sognata/idealizzata. La LG occupa la stanza di un hotel (quello cui fa riferimento il radiodramma Axxon N. annunciato all’inizio del film e nel quale essa accoglie un misterioso cliente – o il marito? E’ quest’ultimo che la brutalizza? Può essere -). On High In Blue Tomorrows è l’adattamento di 47, un film polacco che racconta la storia (reale o immaginata da/) di questa ragazza. La LG proietta sullo schermo un’intima vicenda (il proprio reale vissuto? Le proprie paure? I propri desideri?) e si rivede in un’attrice hollywoodiana alle prese con un nuovo film, ma in essa non riesce a non trasferire anche il proprio senso di colpa, legato a un tradimento (consumato? Solo anelato?). “Tutte le azioni hanno delle conseguenze” dice la vicina; in seguito lo dirà il marito di Nikki: tutti i conti devono essere pagati, tutte le colpe vanno espiate; il suo tradimento (consumato? Solo anelato?) si riversa nella vicenda di Nikki (con l’attore Devon) e nel suo doppio cinematografico Sue (col personaggio Billy). Sue, il personaggio interpretato da Nikki, vive in OHIBT le vicende (reali? Mentali?) della LG alle prese con un marito remissivo che non può avere figli e il conseguente adulterio (lo stesso vale, almeno in parte, per Nikki). Il marito, dopo averla picchiata, lascia la donna per seguire un circo. A seguito dello scontro lei perde il figlio che aspettava dall’amante, amante che forse viene ucciso dal marito. Il tutto in una sorta di dimensione che non è quella di Sue, o almeno non completamente, e non è quella di Nikki e che è molto vicina alla vicenda (reale? Immaginata?) della LG, LG che si prostituisce (per denaro? Per senso di colpa? Perché la prostituzione è lo specchio idealizzato del suo tradimento coniugale?). Phantom è una figura che simboleggia il Male (la Paura? Il Desiderio?) e, al di là dell’ambiguo ruolo che ricopre nelle vicende, ipnotizza la moglie di Billy inducendola all’omicidio e indirettamente fornisce l’arma dell’ulteriore delitto (i protagonisti del film vengono uccisi, ci viene detto fin dall’inizio, anche se non dovrebbe esservi delitto nella versione americana, a detta di Nikki). Sue muore per mano della moglie del suo amante sulla strada di Hollywood (quanto avviene negli USA trova il suo corrispettivo speculare nel film polacco 47). La morte della protagonista di OHIBT sul marciapiede è il momento rivelatore: Nikki, smessi i panni di Sue, consapevolizza tutto riguardandosi sullo schermo cinematografico del teatro di posa attraverso una sorta di avvoltolamento dei sensi, da film nel film, e uccide Phantom, il Male (la Paura? Il Desiderio?) e si ricongiunge alla sua parte fisica: la LG, sconfitte le sue angosce, ritrova il marito e il figlio (realmente? Fintamente?), scena che un po’ mi ricorda l’abbraccio tra Dorothy e il suo bimbo nel finale di Velluto blu. Il mio massimo dilemma è appunto relativo alle visioni della LG: quanto sono dettate da fatti reali? Quanto sono proiezioni di suoi tormenti? I titoli finali raccolgono nella stanza delle prostitute solo personaggi immaginari, in una sorta di girotondo felliniano (non ti piace ‘sta cosa lo so, e non ti piacerà lo schematismo del raccontino, temo: vedo che c’è molto di più, ma richiede un tempo che non ho e una voglia che al momento latita del tutto). Volevo dirti che il doppiaggio italiano è terrificante: nella versione originale la vicina di casa ha un accento straniero veramente inquietante, con queste consonanti durissime, e un tono che è molto meno ironico e lezioso. Il film, poi, riversato in pellicola, perde moltissimo: i colori in digitale, per quanto freddi e poco sfumati, sono molto più intensi, e non c’è comunque traccia di quella patina grigio-marrone che è il dato costante della versione presente in sala. Spero che l’edizione in DVD non si limiti a riprodurre quella della pellicola (il Tulse Luper italiano non ho voluto comprarlo per questo motivo). Comunque, tornando al film, che solo in apparenza dura tre ore perché straborda fuori dal cinema e ti accompagna per un bel pezzetto ancora, a me pare che quale che sia l’interpretazione che si intende adottare e la porta d’ingresso che si vuole infilare - sono legittimi molti percorsi interpretativi -, quello che s’impone chiaramente e che non viene per niente sottolineato è il tipo di linguaggio che Lynch sceglie per raccontare questa vicenda al femminile: la Lost Girl opera una sorta di autentico zapping dell’anima, il percorso si dipana televisivamente, attivandosi attraverso il salto da un canale all’altro, da un format all’altro: c’è il film, la soap opera, il making of, il talk show, la sitcom, il videoclip, c’è addirittura l’annuncio (Hollywood, California, where stars make dreams and dreams make stars!) e il telefilm (il marito che lascia la moglie per seguire il circo: è una serie televisiva questa, chi potrà mai negarmelo?). E le prostitute, in quella stanza che sappiamo sigillata in un set, che si abbandonano a confidenze e discorsi oziosi? Che dicono “Questa sera svoltiamo”, e “C’è sempre speranza con tette come le tue?”. Non è forse un reality-show quello? Non è una prova punti à la “Grande Fratello” quel balletto ingenuo e allegro sulle note di Loco-motion?” (Luca Pacilio).

Psicoteatro

Schegge proiettive, frammenti d’immaginario, frattali psichici, i livelli di IE gemmano gli uni dagli altri provenendo dalla Lost Girl piazzata davanti allo schermo, in un vorticoso impasto psicotelevisivo. La buia camera d’albergo diventa il luogo della dissociazione e della proiezione, in una situazione simile a quella descritta da Sue a Mr. K nell’ufficio Axxon N.: “Quando guardavo le cose attorno a me e io che stavo lì nel mezzo, le guardavo come nel buio di un teatro prima che la scena si illumini”. Gli strati di IE (il radiodramma Axxon N., 4/7, la vicenda di Nikki e On High In Blue Tomorrows) non farebbero altro che riprodurre sotto forma allucinatoria le ferite psichiche della Lost Girl, le sue cicatrici interiori. Alla base c’è un tradimento (e una gravidanza interrotta) che spinge la donna a riversarsi nelle rappresentazioni televisive, raggiungendo un voltaggio emotivo tanto più alto quanto più le vicende rappresentate si avvicinano al “nucleo doloroso”. Le frequenti confusioni di livello e le scosse visive si collocano proprio nei momenti più “caldi” del film. Nikki sovrappone realtà e finzione subito dopo aver accettato l’invito a cena di Devon sul set e aver girato una sequenza sensuale con Billy in OHIBT (“È questo che vuoi Billy? Non voglio innamorarmi di te”, mormora Sue nel crescendo della passione). Lo spettro del tradimento si fa sempre più incombente, entrando in risonanza con l’interiorità turbata della donna seduta davanti allo schermo e producendo una confusione sintomatica: lo smarrimento di Nikki/Sue è a tutti gli effetti lo smarrimento della Lost Girl, che contamina le immagini osservate con un investimento psichico dirompente. Oppure si pensi al momento in cui, dopo il doppio omicidio avvenuto nel livello Vier Sieben, assistiamo a un vero e proprio cortocircuito visivo in cui un’immagine di Laura Dern inquadrata frontalmente mentre dietro di lei piove si commuta in quella di Sue seduta nello stesso modo, ma in accappatoio e dentro casa, circondata dalle amiche prostitute che ballano mentre lei urla a squarciagola. Più le immagini che la Lost Girl vede in tv mettono il dito nella piaga, insomma, più la sua mente vacilla, confondendo i livelli e scivolando paurosamente da un piano all’altro. In questo senso la plasticità semantica di IE sarebbe pienamente riconducibile al gioco di proiezioni e identificazioni della donna polacca, disegnando un vero e proprio teatro della mente in cui le immagini televisive riattiverebbero il “nucleo doloroso” incassato nella psiche della Lost Girl . Estremamente interessanti in questo senso le riflessioni sviluppate da trino nei suoi Prolegomeni alla Narrazione, da cui prendo in prestito l’espressione “nucleo doloroso” e a cui rimando per l’approfondimento della dinamica narrativa.

Sovrimpressioni

Sono numerosissimi gli elementi che suggeriscono l’interpretazione lostgirlcentrica, non ultimo (anzi primo in ordine di apparizione) il volto che si indovina per qualche istante sulla scacchiera di sovrimpressioni poste tra il titolo del film a caratteri cubitali e l’inizio della sequenza ambientata nel “vecchio hotel in un grigio giorno d’inverno”. Mentre la puntina in primo piano solca il vinile, si succedono infatti sullo schermo brevi immagini in sovrimpressione: una di queste lascia indovinare un occhio inquadrato frontalmente sulla destra del quadro. A questa semi-immagine segue prima quella di un vetro appannato e poi la dissolvenza incrociata che introduce alla sequenza iniziale (in realtà è visibile anche un altro “enigma figurativo”: un oggetto circolare mobile che avanza verso di noi in modo molto simile allo zoom di una videocamera). Senza lanciarsi in risibili congetture o supposizioni avventurose, risulta comunque impossibile non pensare ad uno sguardo attraverso una superficie di vetro. È la situazione della Lost Girl: la “porta d’ingresso” di cui parla Luca Pacilio sembrerebbe addirittura arretrabile all’incipit vero e proprio del film, dissipando ogni dubbio circa la necessità di leggere INLAND EMPIRE da questa prospettiva. Parafrasando Luca e aggiungendoci assai del nostro, insomma, IE metterebbe in scena la vicenda di un’ex attrice polacca, la Lost Girl, che nel corso della lavorazione di un film intitolato Vier Sieben tradisce il suo uomo col protagonista maschile, rimanendo incinta e perdendo il bambino (probabilmente a causa delle percosse ricevute dal suo uomo). La possessiva e vendicativa moglie del protagonista (“Non te la lascerò mai avere. Mai”, sibila minacciosamente) uccide il marito fedifrago causando a sua volta la vendetta della Lost Girl, che, armata di cacciavite, la uccide sventrandola. Costretta a vivere in clandestinità e a prostituirsi, la Lost Girl è adesso prigioniera del proprio passato e, sola in una camera d’albergo, rivive televisivamente gli avvenimenti che l’hanno travolta, immedesimandosi con Nikki, la protagonista di un film americano. La tv diventa la tela su cui proiettare, deformandolo e aggiustandolo, il proprio vissuto: On High In Blue Tomorrows si trasforma nel remake di Vier Sieben dove però è lei ad essere uccisa dalla moglie tradita, espiando in questo modo il duplice senso di colpa per il tradimento e per la morte dell’amante. Ormai degenerato in fantasticheria, il film visto in tv si prolunga infine in un commovente e irrealistico happy end in cui Nikki “attraversa lo specchio” per abbracciarla e baciarla, liberandola da tutte le sue paure e donandole idealmente la vita felice che non ha potuto vivere.

IrrazionalMENTE

Eppure leggere il film esclusivamente secondo questa chiave rischia di inscatolarlo in una dimensione psichica un po’ troppo angusta, trascurando, o meglio ignorando colpevolmente, la pressione spirituale che lo abita. Si giunge forse alla costruzione di un senso forte, culminante nell’immagine illusoriamente definitiva della “trama” (in realtà si tratta della fabula, che come è noto non è altro che un’astrazione), ma lo si fa ai danni di una dimensione altrettanto marcata e urgente che pervade la parabola di Nikki/Sue. Quella delineata sopra, insomma, non solo non è LA trama di IE (nel senso che, ovviamente, rappresenta una delle possibili, molteplici e ipotetiche impalcature narrative ricavabili dal plot), ma è il risultato di un dramma interpretativo già consumato, i cui i segni di incisione del testo non sono più visibili e il cui taglio netto ha comportato una vera e propria mutilazione del film. Pensiamo al finale naturalmente, nel quale, lasciata la Lost Girl in compagnia ideale, Nikki se ne sta beatamente seduta sul “divano del domani” vestita di celeste e con un’espressione e una postura letteralmente angeliche. Si tratta di un’immagine dalle fortissime connotazioni spirituali, quasi un’immagine sacra. Compiuta la sua missione salvifica e liberatoria, adesso Nikki è, per così dire, in trono celeste. Esaltata dall’eterea Polish Poem (scritta da Chrysta Bell e David Lynch e interpretata dalla stessa Chrysta Bell), la sequenza dell’illuminazione, in cui Laura Dern è investita da un potente fascio di luce proveniente da un riflettore, segnala effettivamente la fine del viaggio di Nikki, il raggiungimento di una folgorante pace interiore, punto di arrivo dell’itinerario di purificazione. Sempre di itinerarium mentis si tratta, certo, ma qui il culmine è spirituale e non allucinatorio, il ricongiungimento della Lost Girl con Smithy e con il figlio perduto configurandosi come vero e proprio risarcimento trascendentale: il pagamento del conto in sospeso (colpe, paure, “pensieri peccaminosi”, rimorsi) azzera, per così dire, il “debito karmico” della Lost Girl, proiettandola in un universo di pienezza affettiva dove è dato riabbracciare la felicità perduta. Dove? In un altrove che non appartiene al mondo delle psicosi ma al mondo della psiche intesa come anima. È un’interpretazione irrazionale? Ebbene sì, è un’interpretazione irrazionale. “Ciascuno di noi è responsabile delle proprie azioni. E ogni azione ha le sue conseguenze. È questo, in fondo, che racconto. Una verità semplicissima” (David Lynch).

Blackout EMPIRE

Chiudiamo questa scriteriata incursione nei territori imperiali riflettendo sulle possibili analogie tra INLAND EMPIRE e uno dei film più seminali e sottostimati del cinema americano degli anni Novanta: Blackout (1997) di Abel Ferrara. In un vertiginoso stratificarsi di livelli visivi, il tredicesimo film del cineasta italoamericano racconta la storia di una rimozione: Matty (Matthew Modine), divo hollywoodiano strafatto, strangola una ragazza appena conosciuta scambiandola per Annie (Béatrice Dalle), la donna che lo ha lasciato a causa dei ripetuti tradimenti e soprattutto perché lui l’ha costretta ad abortire. Avvenuto sotto l’effetto di alcool e droghe, il ricordo dell’omicidio è tuttavia assente dalla memoria di Matty, ripresentandosi soltanto sotto forma di trasfigurazione onirica. A metterlo di fronte alla tragica verità dei fatti è Mickey (Dennis Hopper), che ha ripreso lo strangolamento della ragazza con una videocamera e ha custodito il nastro nel suo locale. Annichilito e sconvolto dalla visione del video, Matty si tuffa nell’oscurità del mare e inizia a nuotare verso il largo, ritrovando e abbracciando, in una “sovrimpressione/split-screen impossibile”, la ragazza che ha ucciso. Le analogie con IE sono lampanti: anche qui le immagini catodiche riattualizzano violentemente un nucleo doloroso rimosso, anche qui il video mette in comunicazione fasce di realtà apparentemente separate (il vissuto e il rappresentato, il presente e il passato, l’immagine e la memoria), anche qui la plasticità iconica rimanda prepotentemente a una plasticità mentale, impastando subconscio e coscienza. Tuttavia le somiglianze non sono soltanto di carattere genericamente tematico, ma si spingono nel tessuto narrativo: anche il film di Ferrara è incardinato sulla realizzazione di un remake, quel Nana-Miami che Mickey Ray sta girando in video nel suo locale notturno, rifacimento di Nana (1955) di Christian-Jacque in cui il conte Muffat (Charles Boyer), che ha perso la testa per la bella ballerina interpretata da Martine Carol, non accetta di andare in rovina da solo e la strangola. In Blackout, proprio come accade in IE, la lavorazione del remake assorbe molti elementi del film originale, riproducendone esattamente le dinamiche: seguendo l’esempio del conte, Matty sopprime infatti il suo oggetto del desiderio (anche se sbaglia soggetto) poiché incapace di sopportare il dolore della perdita. Tuttavia l’omicidio della sosia di Annie, pur collocandosi apparentemente al livello “reale”, è a tutti gli effetti un frammento del film Nana-Miami, poiché dopo la partenza della vera Annie quella sequenza colma un vuoto nelle riprese. Anche in Blackout si assiste insomma ad una commistione di piani narrativi e livelli di realtà così radicale da sfociare apertamente in “indecidibilità”: la visione è sempre sporca, contaminata, ibrida. Il film è allo stesso tempo il film nel film e viceversa, in un vortice visuale ininterrotto e sragionante. Naturalmente a Ferrara interessa soprattutto la vampirizzazione cinematografica del reale: se il film ha bisogno di nutrimento, occorre sacrificare la realtà senza pensarci due volte. Con Lynch, almeno in IE, siamo da tutt’altra parte, i territori sono decisamente psichici e le interferenze tra i piani narrativi hanno una ricaduta sostanzialmente mentale, dialogando con l’immaginazione a cui aderiscono in quel dato momento. Visioni interiori, in una parola. Ciononostante Blackout e IE condividono la stessa idea di visione come stratificazione: sono entrambi costruiti sulle figure sintattiche della dissolvenza incrociata e della sovrimpressione. Film della “terza immagine”, quella che risulta dall’aggregazione degli strati iconici sovrapposti. Il fatto sorprendente è che dal punto di vista autoriale sia Blackout che IE sono film rivoluzionari. Con Blackout Ferrara utilizza per la prima volta l’AVID, il programma di montaggio digitale che gli permette di controllare personalmente la disposizione (e dunque la stratificazione) delle immagini: “The real breakthrough is the AVID digital editing programme and the way you can use it to layer shots, putting shots on top of shots. […] Now on the AVID we can control opticals”. Quanto a IE, fatto arcinoto, è il primo film di Lynch ad essere girato interamente in digitale: “The DV camera I currently use is a Sony PD-150, which is a lower quality than HD. And I love lower quality. I love the small cameras”. Il motivo di questo amore per le piccole videocamere è evidente: attraverso il video e la sua attrezzatura leggera, Lynch può “fluttuare” (il verbo è suo) nello spazio scenico senza alterare l’atmosfera drammatica e senza interrompere la fluidità delle riprese (e quanto sia importante la fluidità dello sguardo nell’opera di Lynch non ha certo bisogno di essere rimarcato, basti pensare all’uso della steadycam in Mulholland Drive). Discorso solo parzialmente diverso per la bassa qualità, dal momento che Lynch la preferisce all’alta definizione poiché non delucida completamente l’inquadratura, ma lascia che in essa persistano delle zone d’ombra nelle quali l’immaginazione dello spettatore possa inoltrarsi (“The quality reminds me of the films of the 1930s. In the early days, the emulsion wasn't so good, so there was less information on the screen. The Sony PD result is a bit like that; it's nowhere near high-def. And sometimes, in a frame, if there's some question about what you're seeing, or some dark corner, the mind can go dreaming. If everything is crystal clear in that frame, that's what it is - that's all it is”). Entrambi i cineasti, insomma, trovano nel digitale una risorsa espressiva consona alla loro poetica, scoprendo nella duttilità e nella plasmabilità del materiale che il nuovo dispositivo mette loro a disposizione possibilità espressive inedite. Detto altrimenti, INLAND EMPIRE e Blackout sono film contraddistinti dall’impatto provocato da una nuova tecnica – in fase di produzione e/o postproduzione – su poetiche particolarmente adatte a depositarsi in forme plastiche e stratificate, possedendo entrambi forti connotati di sperimentalità visiva. Ma oltre a questi fattori, già sufficienti secondo chi scrive a stabilire un dialogo serrato tra i due film, il punto di contatto più eclatante è rappresentato dal finale, in entrambi i casi fortemente irrealistico e trascendentale. Il film di Ferrara, come accennato precedentemente, si chiude con una “sovrimpressione/split-screen impossibile” che ricongiunge idealmente l’omicida e la sua vittima nell’oscura immensità del mare: nuotando verso il largo e abbandonandosi alla deriva, Matty incontra finalmente la colpa e il perdono. Qui è fortissimo il richiamo ai concetti di continuità dell’essere/discontinuità degli esseri formulati da Bataille (cfr. L’erotismo, ES, Milano, 1997): la rinuncia all’individualità, alla costitutiva frammentarietà del singolo è il passaggio obbligato perché Matty scivoli nell’abisso e si dissolva nella continuità dell’essere, ritrovandovi la ragazza che ha ucciso, abbracciandola e baciandola. Non si tratta di suicidio – stare attenti – ma di “naufragio intenzionale verso il divino” (Silvio Danese, Abel Ferrara. L’anarchico e il cattolico, Le Mani, Genova, 1998, p.78). Paragonato al finale di Blackout, quello di IE presenta caratteri senz’altro meno tetri e drammatici, all’oscura immensità del mare preferendo la raggiante luminosità di un riflettore che investe il volto di Laura Dern e inonda la stanza della Lost Girl. Liberazione, armonia, gioia. Eppure, nonostante la macroscopica differenza di temperatura emotiva, anche questo epilogo ci parla di perdono, unità e continuità. Il bacio che Nikki dà alla Lost Girl comunica una profonda sensazione di empatia, liberando definitivamente la woman in trouble da colpe/paure e infondendole un principio vitale che passa come un soffio attraverso le bocche. Non vi è traccia di rinuncia all’individualità, vero, ma il senso di totalità che pervade la sequenza è difficilmente equivocabile: all’annullamento nell’essere si sostituisce la comunione degli esseri in un’armonia superiore. È sempre il principio di continuità a regnare sovrano. Anche il ricongiungimento con Smithy e il figlio avviene in un altrove immaginario che corrisponde al luogo ideale in cui Matty ritrova la ragazza uccisa, spazi utopici incaricati di rappresentare la visione interiore dei personaggi (e dei loro demiurghi, ovviamente). E, infine, ennesima assonanza tra le due pellicole, entrambi i finali ribadiscono la centralità della sovrimpressione e della dissolvenza incrociata come figure stilistiche salienti: se nel film di Ferrara le immagini sovrimpresse emergono lentamente dall’indistinta oscurità del mare, in quello di Lynch le inquadrature si sovrappongono gioiosamente in un trionfo di sorridente complicità. INLAND EMPIRE è il Blackout di David Lynch, un Blackout di accecante splendore.

6/3/07 12:49  
Blogger Rachele SHamouni-NAghde said...

Pubblichiamo e ti ringraziamo. Tu concordi con gli Spietati?

6/3/07 13:07  

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